DIRITTO DI FAMIGLIA – La tutela della famiglia alla luce della legge 154/2001

Gio Giu, 2018

DIRITTO DI FAMIGLIA

La tutela della famiglia alla luce della legge 154/2001

È ormai consolidato l’orientamento, oltre che dottrinale e giurisprudenziale, di cercare di preservare il sempre più precario equilibrio della famiglia da inutili traumi, perciò si è cercato di individuare una direzione che non è la soluzione penale (arresto a seguito di denuncia) o quella civile (separazione).

Nel recente passato, in mancanza di una legge specifica, per tutelare le famiglie all’interno delle quali vi erano soggetti violenti, la giurisprudenza utilizzava quanto disposto all’articolo 283 c.p.p. che disciplina la misura del divieto e obbligo di dimora, la cui applicazione, di volta in volta, veniva modellata sul caso concreto: “Con il provvedimento che dispone il divieto di dimora, il giudice prescrive all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede”.

Nel 2001 la svolta: Fuori da casa i mariti (e le mogli?) violenti e maneschi, è così che prevede la legge sulle “misure contro le violenze familiari” del 4-4-2001, n. 154, che è estensibile anche a tutti i conviventi.

Il giudice, con una decisione rapida ed efficace, su richiesta del P.M., potrà ordinare, al soggetto reo di tale comportamento, di lasciare immediatamente la famiglia e non rientrare senza una esplicita autorizzazione del magistrato, il P.M. potrà, altresì, richiedere che l’imputato versi un assegno di mantenimento alle persone conviventi prive di mezzi di sussistenza. Con il provvedimento normativo in oggetto si è cercato di porre un freno al fenomeno della violenza tra le mura domestiche per evitare che, nelle more del procedimento penale, il soggetto indagato per delitti commessi nei confronti dei componenti del nucleo familiare possa continuare nella propria condotta criminosa, con gesti intimidatori verso le vittime degli abusi.

Come per le altre forme di misure cautelari deve esserci il presupposto dell’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, il pericolo di reiterazione di delitti, il criterio della proporzionalità tra gravità del fatto e misura prescelta.

Tramite lo stesso provvedimento, potrà essere previsto il divieto per l’imputato di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, tra i quali il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia d’origine o dei congiunti più prossimi.

Con la medesima legge, si traccia anche la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari rispetto al Codice civile, introducendo una nuova tutela per l’ottenimento della quale non è necessaria la presenza del reato, del danno effettivamente arrecato, ma sarà sufficiente una accertata situazione di tensione per far scattare la norma di tutela da parte del giudice.

Una delle prime applicazioni della Legge n. 154 del 4 aprile 2001 è del Tribunale di Palermo che con Decreto del 4.6.01, ha ordinato che il coniuge che si era macchiato di atti violenti, sia verbali che materiali, fosse  allontanato dalla casa familiare per un periodo di tre mesi, in più il reo è stato diffidato dall’avvicinarsi all’abitazione dei familiari dell’altro coniuge.

Veniva inoltre disposto il pagamento di una somma mensile a titolo di contributo per il mantenimento della figlia minore.

Il Giudice ha disposto i cosiddetti “ordini di protezione”, cioè quei provvedimenti con cui il Magistrato disponendo l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge (o del convivente), reo del fatto, ordina la cessazione della condotta lesiva.

Qualora si proceda per uno di questi delitti espressamente previsti, cioè la violazione degli obblighi familiari art. 570 c.p., l’abuso di correzione 571 c.p., la prostituzione minorile 600 bis, ter, quater c.p., abuso sessuale 609 bis c.p., ter, quater, quinquies e octies del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280 cod. proc. penale  che riguarda le Condizioni di applicabilità delle misure coercitive, dando quindi un rilievo maggiore alla prevenzione e alla punizione dei reati compiuti contro il nucleo familiare.

La ratio della previsione legislativa contenuta nella l. n. 154, si inserisce in quella delle più recenti pronunce della Cassazione che  con sentenza 46775/2004 ha stabilito che “Chi prende a schiaffi la figlia minorenne senza motivo rischia una condanna per il reato di percosse.” Il Tribunale che la Corte di Appello di Napoli avevano condannato ad un mese di carcere per il reato di percosse il padre di una bambina, il quale aveva schiaffeggiato ripetutamente la figlia, che si era sporcata le mani disegnando sulla sabbia, perciò la moglie lo aveva denunciato. La Suprema Corte ha confermato la condanna, ravvisando nella condotta dell’uomo un abuso dello “jus corrigendi”: il diritto di educare i figli non giustifica in alcun modo la violenza.

Nella stessa ottica si pone la precedente sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione che, annullando la condanna a due mesi di reclusione per il reato di violenza privata inflitta dalla Corte di Appello di Salerno (Cassazione n. 3570 depositata il 18 marzo 1999), ha disposto che un padre che strattona e schiaffeggia la figlia minorenne, sorpresa ad una festa, esercita (anche se in modo esagerato) il diritto al cd. “jus corrigendi“, diritto di correzione, con finalità educative, infatti anche se apparentemente  contraria a quanto detto sinora, tale sentenza delimita e offre un punto di riferimento per stabilire i criteri per inquadrare il suddetto diritto di correzione, il confine di tale diritto è, infatti, necessario per offrire non solo un concetto giuridico di riferimento, ma anche un paletto ai comportamenti delle giovani menti che non sempre sono in grado di cogliere la sottile linea di confine che separa il bene dal male.  L’uomo era intervenuto e praticamente aveva trascinato fuori da una festa la ragazza, affibbiandole anche sonori ceffoni del padre appariva astrattamente giustificato, secondo i giudici di legittimità, per cui i giudici di primo e di secondo grado non avrebbero dovuto richiamare il “diritto all’autodeterminazione” della ragazza ed il principio che esclude le “maniere forti” per educare i figli, in quanto il principio va, invece, rapportato caso specifico nel quale tale intervento viene esercitato.

La Suprema Corte, ha in ogni caso, affermato che l’uomo ha commesso l’errore ed è in questo senso colpevole,  di non verificare il consenso in precedenza accordato della madre della ragazza, “oltrepassando i limiti entro i quali avrebbe dovuto esprimere il proprio dissenso con un comportamento non doloso (cioè volontario) ma fattispecie in colposo: poiché tuttavia il reato di violenza privata richiede il dolo, in questo caso “il fatto non costituisce reato”.

Si legittima sempre di più questa apertura del privato verso il pubblico, ormai la sfera educativa affianca alla responsabilità dei genitori, quella dello Stato che  più che interferire integra la responsabilità politica con quella dei genitori.

La Cassazione con sentenza n°7713/2000 ha condannato l’atteggiamento disinteressato di un padre verso il figlio, obbligandolo a risarcire il “danno esistenziale” che gli aveva causato col suo comportamento omissivo ed  ha statuito che l’art. 2043 c.c.in materia di risarcimento per fatto illecito <<Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno>>,  va correlato con l’art. 2 e seguenti della Costituzione, in modo tale da riconoscere ai figli, depauperati della presenza affettiva oltre che economica del genitore, un equo risarcimento.

Anche in un rapporto privato come quello intercorrente tra genitori e figli sono stati riconosciuti operanti le norme costituzionali di garanzia dei diritti fondamentali.

La tendenza è quella di tutelare la serenità di soggetti, soprattutto minori, che nella famiglia dovrebbero trovare sostegno e in ossequio ai principi sanciti dalla Costituzione agli articoli 29, 30 e 31 che vede la famiglia come il luogo dove ciascuno può liberamente formare ed esprimere la propria personalità, che si fonda sulla collaborazione dei coniugi (ma anche dei conviventi more uxorio), nonchè al più generale principio contenuto nell’articolo 2: <<La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità…>>, la famiglia è una delle più importanti formazioni sociali intermedie, indispensabile per la crescita e promozione dell’individuo.

In ossequio a tali principi la Cassazione ha stabilito che: “Concorrono tra loro il delitto di maltrattamenti e quello di violazione degli obblighi di assistenza familiare, allorché l’agente intollerabile la vita al punto da costringere le vittime ad interrompere la convivenza e stabilirsi al di fuori della residenza familiare, e faccia mancare agli stessi i mezzi di sussistenza, riducendoli in stato di completa povertà, per essersene del tutto disinteressato e per averli abbandonati.” — Sez. 6 sent. 12464 del 24-12-85.

Che: “Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare ha per oggetto i rapporti intercorrenti tra i singoli componenti della famiglia, e non l’ordine familiare,con la conseguenza che chi faccia mancare i mezzi di sussistenza a più di un familiare risponde di una pluralità di delitti, eventualmente unificati sotto il vincolo della continuazione”. — Sez. 6 sent. 36070 del 29-10-2002.